Ed eccomi al secondo workshop, Complicare per alleggerire. Tanta curiosità: stamattina scoprirò come tenere un’asana con la forza delle mani o quella dei piedi. Diverse volte a lezione avevo già osservato l’impronta delle mani e dei piedi sul tappetino, ma nello yoga, si sa, niente è così semplice come sembra. Dopo saluti e chiacchiere di rito – è bello tornare nella sala colorata e preparata apposta per noi, ritrovare i nostri maestri e sembrare tutti più sorridenti dal momento che è domenica – il maestro Simone inizia la lezione. Ridendo ci dice: oggi vi innamorerete delle cavolate. Prevedo guai…
Si parte dalle mani. Simone ci fa avvicinare al centro per studiare l’appoggio della mano a terra, ed è un percorso lento e meditato in realtà: si parte dall’arco sotto il pollice, si poggia gradualmente il polso, il mignolo si estende e si allarga quel tanto che basta a far poggiare tutta la mano a terra, e le dita… le dita devono premere prima verso terra e poi restare lì radicate tendendo quasi verso l’alto. Ma l’attenzione non va rivolta alle dita intere, e nemmeno ai polpastrelli. Penso: ma se devo afferrare qualcosa, in questo caso la terra, che mi rimane per farlo? Risponde il maestro: guardate la seconda falange. La seconda falange? E che cosa sarebbe? Ah… la parte del dito dopo la nocca, che se disposta bene, dovrebbe farsi bianca. Mi guardo le dita e inizio a cercarti mia cara falange, sinceramente non ricordavo di averti ma a quanto pare sei lì e sei anche capace, se voglio, di colorarti di bianco. Devo usarti per sostenermi in adho mukha e cercare di salire più in alto possibile, ma è una posizione con cui litigo una lezione sì e quella dopo pure, e visto che tu ora, mia cara falange, baccagli con me contro il cane a faccia in giù… ti chiamerò… falange oplitica!
La seconda parte del workshop interessa l’appoggio dei piedi. Il maestro Simone si sofferma di nuovo a farci vedere un graduale e progressivo appoggio del tallone, dell’alluce e di tutto il piede a terra. Anche questo è un percorso lento, meditato, fatto di scelte null’affatto scontate. Le dita devono radicarsi a terra tutte e cinque, compreso il mellino. Il mellino… il mellino… maestro sarebbe? Il quinto dito del piede. Davvero si chiama così? E davvero dobbiamo imparare a sentirlo? Inizio a fissarmi i piedi, ed eccoti qua caro dito dimenticato, anzi no… eh già… tu sei quello talmente piccino che mi fa disperare quando metto lo smalto… tu sei quello che se ne sta seminascosto dietro le altre dita e ricompare sadicamente a ricordarmi che la doccia, il letto e il comodino hanno degli spigoli simpaticissimi e ispiratori di alta poesia. Mellino è un nome troppo strano da ricordare, e fin troppo dolce per te, quindi ti chiamerò… spigolino! Il maestro ci fa applicare l’appoggio dei piedi a tadasana, la posizione della montagna. Le dita e spigolino devono aggrapparsi al tappetino, alla terra, e permetterci di salire con il bacino, il busto e la testa verso l’alto. Chiudiamo gli occhi. Mi sento più alta. E inizio a pensare che forse, caro spigolino, qualche volta ti ho usato, e vorrei che ora ci fosse la sabbia al posto del tappetino… secondo me tutti per restare in equilibrio camminando sulla sabbia ci aggrappiamo anche a te spigolino.
Simone trae spunto da questo movimento per spiegarci nuovamente come la disciplina dello yoga si possa trasferire dalla scelta di un’asana alla scelta di una azione quotidiana. Il radicamento dei piedi a terra procede con precisa scelta e consapevolezza, rendendo complicato l’appoggio si andranno a semplificare ed alleggerire le asana basate su di esso. Ma nella vita quotidiana facciamo lo stesso? Quando prendiamo il caffè a colazione, pensiamo in quel momento solo a gustarlo con calma, oppure non l’abbiamo ancora finito che già siamo proiettati a lanciare di corsa la tazzina da qualche parte e a correre via a lavoro con una autostrada di pensieri per la testa? E ancora… Siamo in macchina e il tizio davanti ci fa arrabbiare, ci guarda male, borbotta e ci invita a rispondere per le rime, noi quale scelta facciamo? Quella di replicare sgarbatamente a tono, così anche lui rimbecca e vai a litigare con
insensato e pesantissimo senso di soddisfazione, o di sorridere gentilmente lasciando lo sconosciuto perplesso e continuando la nostra giornata?
Ecco cosa mi porto di questo secondo workshop. La complicazione nello scegliere i movimenti. La complicazione nel disciplinare i pensieri. Altri passi nel percorso per osservarmi, radicarmi a terra, vincere l’impulsività, salire verso la leggerezza, restare lì. Inizierò domattina alzandomi dieci minuti prima per non permettere alla mia tazza del the di vagare acrobaticamente per casa… e se qualcuno per strada mi farà arrabbiare… beh i miracoli richiedono tempo giusto?
Simona Anna