È strano, succede che ad un certo punto, pur ritrovandoti in un piccolo e malconcio garage dove servono cappuccino e dolcetti pastosi, sporco, senza criterio di regole commerciali, stando spalla a spalla con persone sconosciute, che tanto non sanno nulla di te mentre hai la faccia segnata da una nottata di fastidi interiori e di disturbi che provengono dall’esterno, proprio mentre guardi una mosca posarsi su quello che sarà la tua bevanda calda e il cameriere decide pure di fumarsi una sigaretta davanti al banco dei dolci a 10 centimetri di distanza, ti arrivi la voglia di scrivere a dispetto di vertigini, spossatezza e stanchezza.

Qui quanto meno c’è musica piacevole, alta ma piacevole e, ripenso alla nottata appena trascorsa, la festa affianco alla nostra abitazione continua, anche questa sera non mi sono unita al gruppo per la cena sperando che il sonno mi conducesse altrove, oltre il malessere fisico, oltre il desiderio di trovarmi nella mia casa, oltre la voglia di spegnere tutto questo marasma di un posto folle . Matteo scopre che questa festa nel tendone bianco e rosa che dura da 2 giorni è un matrimonio, riferisce che la sposa ha un volto spento e triste, lo sguardo assente. Io da 4 ore ho tentato di accettare passivamente l’assurdità della scelta musicale del dj, base tecno/hard core (chissà quale altra diavoleria) su testi lagnosi tipici indiani con quel retrogusto del dramma napoletano, racchiudendo in sé il seme della diavoleria umana, le cuffiette alle orecchie, le melodie soavi e mondiali di Beethoven, Mozart, Bach non schermano questo inferno in terra, le percussioni prodotte vanno oltre il suono acustico, si insinuano tra le viscere risalendo la linfa organica che contaminata, arriva a spappolare il cervello.

Raccolgo tutta la pazienza di cui il divino mi ha fatto dono e attendo, simulando calma quando invece vorrei poter urtare violentemente la testa contro il muro con la presuntuosa certezza che solo in quel modo, grazie al mio gesto sacrificale, il mondo smetta di essere diabolico. Sposto lo sguardo dallo schermo luminoso che produce parole, la mosca è scomparsa, sarà forse annegata nella mia bevanda, il pensiero è sfuggente come tutto quello che accade qui. Torno ai miei ricordi, la mattina non promette entusiasmanti ore, mi dissocio come al solito non per volontà, ma per necessità fisica che costantemente non mi abbandona, il gruppo esce recandosi in un paesaggistico Tempio arroccato sullo sperone di una delle tante colline sul lato opposto. Ripongo speranza credendo in qualche minuto di “nulla”, niente movimento, niente pensieri, niente clacson, niente scrittura e niente fastidi…. Un martello pneumatico, il cantiere a cielo aperto ad un metro da noi, betoniere di cemento incessanti e quel “tratratra tratratra” che non demorde, lo sento dentro la stanza, forse è ptesente nella mia scatola cranica, mi mordo la lingua e passo oltre.

Ecco, questa è l’India, non puoi fare programmi, assurdo pensarlo, mi vesto quasi a voler fuggire, lasciando che il mio corpo ridotto a un detrito, venga trasportato dalla folla torrenziale. Ho giusto la capacità di comprendere dove mi stia dirigendo,acquisto dolciumi e caramelle, e mi ritrovo lì, dove Tulsi ha la sua dimora fissa, una bolla di sapone che ovatta l’ambiente esterno. Mi siedo sulla solita roccia, scruto in basso, verso la riva, attendo che il bambino compaia da dove l’ho lasciato. Non c’è, il dispiacere si fonde con la speranza che sia altrove, dove più consono a lui. Quando ormai inizio a presagire che non verrà ecco che mi sento chiamare, compare sul lato destro, mi raggiunge. Oggi è più bello che mai, ha tolto la fascia in testa e sfoggia un look Occidentale. Jeans e felpa giallo ocra, un taglio di capelli moderno ne esaltano lo sfavillante nero corvino. Apprezza il regalino goloso, mentre scarta una caramella me ne offre una, gli dico che preferisco le tenga lui, come non detto, la solita India e progetti da non fare, mentre Tulsi si diverte a fare un video con il mio telefono sul fiume, 2 scimmie si avventano sul suo cestino rubando il contenuto. Che dire! Mi sono divertita come una bambina, rimanere a guardare le 2 scimmie, una poco distante abbuffandosi del contenuto della busta e l’altra sopra un albero con in mano il kit da lavoro di Tulsi. Un momento di condivisione, buffo come quelle nostre antenate ladre, ci allontaniamo, facciamo una breve passeggiata e compriamo altri dolciumi. Saluto il bambino e lui non fa storie ringraziandomi del pensiero, il resto della giornata è frammentata. Guarderò il video dell adescamento più volte.

A Rishikesh una donna, può girare senza timori delle persone, non si può dire la stessa cosa delle forme di vita animali che, arroganti, padroneggiano su tutti. A proposito di scimmie, tornando racconto la storia a Simone e Scarabocchio dicendo: 《sapete sono andata da Tulsi!》 la risposta di Scarabocchio:《Dove? Da Tucci?》 con occhi sgranati e buffi come le scimmie del luogo, scoppio a ridere, in questa frase è raccolto tutto il desiderio che ha di tornare casa, abitudini comprese. (Bar Tucci, storico bar di Frosinone alta). La serata si chiude con Matteo sul terrazzo, è quasi l’una di notte, la mia testa bolle, lui sta pazzo come una scimmia ubriaca e inveisce verso la musica demoniaca con fare incomprensibile. Solo adesso vengo a sapere che si stava divertendo, lo dice a me che, invece, desideravo entrare nel tendone e buttare acqua sul generatore di corrente. Eh già, il mondo è bello perché è “avariato”!